Il meglio dell’editoria indipendente
Siamo tutti più o meno familiari con scrittori come William Faulkner, Gertrude Stein, F. Scott Fitzgerald o Ernest Hemingway, soprattutto se come lettori siamo fan di quella letteratura americana classica e sempre attuale, capace di farci commuovere e sognare anche a distanza di un secolo.
Eppure c’è uno scrittore che non conoscevo affatto finché non ho preso in mano Riso Nero, nonostante sia riconosciuto come mentore degli stessi Faulkner e Hemingway e abbia in qualche modo aperto la strada per la successiva generazione di grandi scrittori americani.
Sherwood Anderson vive tra il 1876 e il 1941, in un’epoca che vide incredibili cambiamenti nel modo di vivere dell’uomo comune, attraversando i ruggenti anni Venti e la depressione più nera delle due guerre nel corso di pochi decenni.
Anderson nasce in Ohio da una famiglia poverissima, dove sin dall’adolescenza è costretto a svolgere i più disparati lavoretti per portare un contributo alle magrissime finanze familiari. In quella che sembra una vera storia romanzesca di emancipazione tipicamente americana, nel corso della vita Anderson riesce ad affermarsi come redattore e businessman, passando da povero ragazzo delle zone rurali d’America a distinto gentiluomo della sempre più emergente classe borghese, con una bella famigliola che può mantenere serenamente e la passione per la buona letteratura, una costante per tutta la sua vita. Pubblica racconti brevi e romanzi in seguito, affermandosi per il suo stile lineare e pulito, e l’attenzione che pone nell’introspezione dei personaggi, considerata molto freudiana.
Fino a qui sembra la biografia di un qualsiasi autore “normale”, con la storia del sogno americano nel mezzo, e invece è proprio qui che Anderson diventa, almeno per me, incredibilmente interessante.
Riso Nero viene pubblicato nel 1925, ed è la storia di John Stockton, giornalista di discreto successo nell’America degli anni Venti, uomo riflessivo e chiuso in sè stesso, sposato con Bernice, una donna colta e intelligente, con cui però non riesce veramente a comunicare, se non con sorrisetti colmi di sottintesi che fanno infuriare la donna.
La vita di John e Bernice è la vita di tante coppie dell’epoca, non poveri ma nemmeno ricchi, con una donna delle pulizie e un piccolo appartamento rimodernato dalla stessa Bernice, e i loro lavori a tenerli impegnati, anche se forse Bernice il talento per “sfondare” e diventare una scrittrice lo avrebbe, almeno a parere di John, che si sente immancabilmente un po’ inferiore.
Riso nero è anche la storia di Bruce Dudley, impiegato presso una fabbrica di verniciatura di componenti per pneumatici a Old Harbor, nell’Ohio rurale dell’epoca, cittadina sonnacchiosa e senza particolari attrattive il cui più grande merito è appunto ospitare la fabbrica in questione. Bruce siede accanto a Sponge Martin, ex-artigiano costretto a lavorare ora come operaio, un ometto sardonico e loquace che sembra aver capito come vivere al meglio la vita (con una bottiglia di whisky in mano, una moglie con cui divertirsi e che cucini pasti abbondanti, e ovviamente con sani pisolini dopo una lunga giornata di lavoro).
Bruce osserva molto e parla poco, piazzandosi come “protetto” di Martin, lavorando con il ritmo placido e sempre uguale che anche oggi si può respirare in certe cittadine di campagna del profondo Sud (e non solo lì).
La cosa che emerge fin da subito è che in realtà questi due uomini sono la stessa persona: John ha infatti abbandonato la moglie, il lavoro, insomma tutta la sua “vecchia” vita, per ridiscendere il Mississippi, come un troppo cresciuto Huckleberry Finn, e tornare a lavorare come semplice operaio nel paesino dove ha passato l’infanzia, ovviamente sotto falso nome per tagliare definitivamente con la sua vecchia vita.
Ciò che davvero mi ha colpita in questo romanzo è il fatto che, dopo aver letto la biografia di Anderson, risulta chiaro e lampante come la storia sia ispirata da un evento realissimo, e più vicino di quel che potremmo credere; infatti Anderson stesso sparisce per quattro giorni nel 1912, e nessuno sa dove sia stato o cosa abbia fatto in quel periodo di tempo. Lui stesso non ne ha ricordi, e quando riappare in stato confusionale ricorda a malapena il proprio nome.
Sembra quasi che in Riso Nero Anderson abbia voluto idealizzare, se non rappresentare, la sua esperienza del 1912, il suo desiderio fino a quel momento rimasto nell’inconscio, quello di scappare e fuggire dalla vita mondana e modernizzata che conduceva tutti i giorni per fare ritorno alla natura.
Proprio come Anderson, per Bruce la fuga è un ritorno ad uno stato originale di essere, una liberazione dalle imposizioni della società moderna attraverso la “regressione” verso una vita più semplice e più naturale.
Nelle sue riflessioni, Bruce ci fa scoprire la visione del mondo di personaggi come appunto Sponge Martin, che a volte sembra invidiare per la sua capacità di adattamento e appagamento personale, prendendolo come esempio a vivere in maniera completamente diversa rispetto a quella di John.
Ho divorato il libro in poche ore, facendo il viaggio contrario rispetto ad Anderson e Bruce, se così si può dire, dato che dal mio paesino di campagna stavo raggiungendo la caotica e affollata Torino, ed è anche questo che mi è risultato subito intrigante: Anderson riesce a descrivere in maniera chiarissima un desiderio, una pulsione, calandolo in un uomo degli anni Venti e facendolo arrivare fino a noi lettori del secolo successivo, facendomi venire nostalgia delle vedute di campi e giardini e fiumiciattoli di cui posso godere uscendo di casa e camminando per pochi minuti.
Riso Nero è un romanzo di liberazione per certi versi, che mi ha fatto venire voglia di prendere lo zaino e immergermi nella natura, che qui è vista come assolutamente positiva e protagonista di tantissime riflessioni di John/Bruce; ovviamente è complice anche la serenità con cui il protagonista abbandona tutto, senza rimpianti né particolari ripensamenti, come se la sua fuga fosse lo scorrere placido ed eterno del Mississippi, un fatto naturale e necessario.
Un altro aspetto che ho amato in Riso Nero, e che mi ha permesso di finirlo in pochissimo tempo, è la forma stilistica con cui Anderson sceglie di raccontarci la storia di Bruce/John: il romanzo si presenta quasi come un racconto orale, che ci fa sentire dentro la storia, non solo al margine, come se stessimo ascoltando gli eventi da qualcuno direttamente coinvolto nella vicenda, che ci permette di conoscere anche i pensieri più intimi dei protagonisti e ce li fa diventare, se non amici, quantomeno familiari abbastanza da immedesimarci in loro.
Ovviamente anche la storia editoriale del romanzo Riso nero in Italia ha contribuito a farmelo amare.
La traduzione attuale è edita da Cliquot, casa editrice che ho conosciuto di recente, e che ho apprezzato ancora di più dopo aver scoperto che la traduzione di Riso Nero che tanto mi ha intrigato non è la stessa con cui il romanzo era stato pubblicato in Italia nel 1932.
Si tratta di una traduzione nuova, fatta dall’originale, e se già questo non riflette una scelta coraggiosa degli editori basti sapere che la traduzione originale è di Cesare Pavese, che fra le altre cose tradusse anche Moby Dick, Dedalus e Uomini e Topi.
Parliamo quindi di un intellettuale di calibro decisamente non indifferente, e da traduttrice riesco a rendermi conto della grandezza della scelta fatta in modo particolare: non è semplice tradurre un’opera così viva e attuale dopo che uno dei più grandi intellettuali della nostra storia moderna l’ha fatto, ma Cliquot riesce a farlo con grazia in questo caso, rendendo il romanzo più appetibile al pubblico moderno, regalandoci quindi un’opera che riesce a incantarci anche a distanza di un secolo dalla stesura originale.
Tradurre, o in questo caso ritradurre, un libro, significa mettersi in contatto con l’anima di chi l’ha scritto al di là della barriera linguistica, e in questo caso si è trattato di accordare l’anima di Anderson con quella di Pavese, per regalare a noi lettori un romanzo che ci porta direttamente nel rurale Ohio degli anni Venti, seduti in riva al Mississippi, mentre nell’aria riecheggiano i canti e le risate dei lavoratori di colore che passano, e che ci regalano, seppure momentaneamente, una fuga dalle nostre caotiche città verso un vero e proprio paradiso dimenticato.